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Non una di quelle “storie dell’emigrazione” che mettono al centro i bastimenti con le terze classi stipate all’inverosimile o le umiliazioni patite a Coney Island, con le lunghe code per il visto di accesso negli USA, le sbarre e i cancelli ma tutto quello che c’è stato dopo (o senza) Coney Island.
    Per i nostri emigrati quello è ormai un (brutto) ricordo, oppure non lo si è nemmeno visto e vissuto, per chi ha scelto il Sudamerica.

    Qui parliamo di legami, del linguaggio autonomo che la fotografia di emigrazione va sviluppando via via che gli emigrati acquistano competenze nella produzione delle immagini e del ruolo che quelle immagini hanno all’interno della famiglia, soprattutto di quella frantumata dai fenomeni migratori.

   Oggi sono cambiate le tecnologie, ma sono rimaste le fotografie e le lettere, che adesso si chiamano “selfie”, e social network. Il risultato finale però non cambia: i “surrogati di presenza” viaggiano da una sponda all’altra di un mare, che può essere ostile, per mantenere o rinsaldare quei legami che la distanza e il tempo cercano di erodere e cancellare.

   Con la prefazione di Antonio Gibelli, il libro è edito da Internòs